The Watcher: qualcuno ci osserva
È stata forse l’avidità a portarvi qui?
Il luogo della casa (che ha evidenti effetti sulla psiche di chi la abita) nella grammatica horror, ha sempre avuto un posto speciale, affascinando letteratura, cinema e serialità. Nella rappresentazione è spesso conseguenza di un trasloco di un nucleo familiare che si allontana da una situazione svantaggiosa per cercare la felicità altrove, il più delle volte antiche dimore da ristrutturare. Ahinoi, la serenità agognata si disintegra non appena varcata la soglia.
Lo stravolgimento dello spazio intimo, non più accogliente ma di contro respingente, aspro, persino crudele, ci fa riflettere sul significato profondo che associamo alle quattro mura in cui viviamo. Ecco perché ancora oggi, nonostante la fruizione in tutte le salse, questo particolare topos continua a colpirci personalmente, come un’invasione di cui restiamo vittime inermi.
Se viene meno quel senso di sicurezza che ci spinge a riaprire quella porta, chi siamo noi, se non anime erranti?
Nella miniserie The Watcher la casa è oggetto del desiderio di molti, maestosa, intoccabile: dai rivestimenti in marmo italiano della cucina, al legno scuro dello storico montavivande. Sorvegliata dallo sguardo instancabile di un vicinato alquanto particolare (menzione speciale a un’impeccabile Mia Farrow, stavolta dall’altro lato dello spioncino), sarà teatro di una storia che mira a punzecchiare lo spettatore costringendolo a domandarsi “è davvero questo il posto più sicuro?”.
Non è però il soprannaturale a giocare sinistramente con gli abitanti della casa: la paura arriva sì da ciò che non vediamo ma chi la provoca è reale, celato, pronto ad agire con disarmante prontezza, soprattutto di notte, quando le luci si spengono e i più piccoli rumori si acuiscono.
Gli elementi volti a creare un continuato senso di smarrimento e disequilibrio tirano la corda fin quasi a spezzarla: la stessa abitazione sembra mutare ad ogni cambio inquadratura, così ad ogni visuale, i confini a volte si dilatano, a volte si restringono, rendendo faticoso l’orientamento, agevolando di contro un sentimento di angoscia opprimente. I luoghi esterni invece, ci permettono di respirare, perché nonostante l’ampia metratura, in quelli interni si soffoca terribilmente.

L’iter di Ryan Murphy nella regia e nella scrittura non sorprende, anzi ha gli stessi, problematici punti critici di molte delle sue opere: la furia di voler per forza intrattenere, affascinare, terrorizzare, si traduce con l’avanzare degli episodi in un “tutto troppo” che tocca solo superficialmente alcune tematiche (che risultano dunque poco elaborate), in un’affettata escalation di sempre più improbabili colpi di scena.
Interessante però il punto di partenza, che non fa che rendere la paura dell’invasione dello spazio personale terribilmente reale.
Lo spunto è infatti un caso di cronaca del 2014 (portato alla luce dal New York Magazine nel 2018) quello dei coniugi Broaddus (nella miniserie Brannock) e dell’acquisto della lussuosa casa a sei stanze del 657 di Boulevard Street nel Westfield, New Jersey. Il desiderio di una vita tranquilla in provincia assieme ai figli, si infrange con l’arrivo di alcune inquietanti lettere minatorie anonime firmate da un osservatore (the watcher appunto) proclamatosi custode della dimora e intenzionato a seguire ogni mossa dei nuovi inquilini “il sangue giovane giocherà nel seminterrato? O hanno troppa paura per andarci da soli?”.
La miniserie tesse attorno a questo caso ad oggi irrisolto, una dilatata rete di storie, voci e complotti, dando spazio alla libera interpretazione più che ai fatti, spargendo poco sapientemente verità e dicerie, in una trama sempre più fitta di carnefici e vittime. Così bugia dopo bugia, in un clima di suggestione crescente, l’ossessione dei protagonisti nel voler scoprire chi si cela dietro alle lettere, diventa anche la nostra. Siamo con loro quando, ad ogni esclusione di un sospettato (le cui foto ci guardano, appese alla grande bacheca di sughero del seminterrato) indaghiamo mettendo assieme i pezzi, provando ad immaginare i perché.
Eppure con l’avanzare degli episodi, la matassa non si sbroglia, ma si contorce, si ingarbuglia, allontanando il fruitore dal disvelamento delle tante, troppe, situazioni, aggiungendo temi sui quali non si ha tempo (né ci si cura) di tornare. Dalla sua, la miniserie ha le intense interpretazioni dei protagonisti (Naomi Watts e Bobby Cannavale in primis) prigionieri di una minaccia invisibile che ha tangibili conseguenze, soprattutto su ciò che rimane della loro labile stabilità mentale. La scrittura di contro, sebbene un’ottima partenza (i primi tre episodi sono estremamente suggestivi) si trasforma sul finale in una raffazzonata serie di tentativi volti a stupire lo spettatore ad ogni costo e con ogni mezzo.
Post visione resta un velato senso d’angoscia, gli strascichi di qualche buon jumpscare, una forte volontà di comprendere e il doveroso quesito che picchia incessante nel cervello “siamo davvero così al sicuro nelle nostre case?”.