Non sono più bambini: l’estate di Stranger Things 3
Fine giugno 1985: con l’arrivo dell’adolescenza poco spazio resta per Dungeons & Dragons, solo Will, aggrappato all’ultimo pezzo della sua fanciullezza, al grido “non mi innamorerò mai”, tenta costantemente di riprendersi gli amici, piegati al giogo dei primi amori.
Il sottosopra e il Mind Flyer risuonano come echi lontani e le uniche creature mostruose con le quali scontrarsi sembrano essere gli zombie di George A. Romero, intrappolate –per fortuna!- nello schermo in uno spezzone di Day of the Dead che i cinque nerd guardano al cinema.
Will però avverte qualcosa, un brivido gelido lungo la schiena, un morso pungente che lo riporta indietro di un anno dove tutte le paure si fanno vivide e terrificanti: il mostro che lo aveva reso prigioniero, è più vicino che mai.
Per le strade aleggia un silenzio surreale, assordante, contrapposto al chiasso perpetuo che aleggia nel Mall appena aperto, dove la storia comincia e finisce, colmando gli spazi dal soffitto ai magazzini. Il centro commerciale è un labirintico luogo di luci e ombre, dove il nemico è nascosto proprio sotto i nostri occhi, celato dal rumore delle moltitudini vite che si susseguono al suo interno (ricordate dove era ambientato Dawn of the Dead di Romero?).
La terza stagione di Stranger Things ha i colori al neon delle insegne dei fast food e la luce bianca del proiettore delle sale cinematografiche: mentre fervono i preparativi per il 4 luglio, il coloratissimo Starcourt diventa il centro nevralgico dell’apparente tranquilla vita estiva di Hawkins.
[foto: IoDonna | Serialminds ]
La calma piatta della provincia americana è però inevitabilmente compromessa da misteriosi accadimenti la cui esistenza sembra preoccupare e compromettere i “soliti noti”: le calamite perdono di colpo il loro magnetismo, topi rabbiosi divorano fertilizzante chimico e Dustin, cercando di contattare la sua Suzie, intercetta per errore una comunicazione in codice del governo sovietico.
Tasselli sparpagliati di un unico grande puzzle che vede Hawkins tetro teatro di una scena estesa che coinvolge il sottosuolo come luogo del reale (i laboratori russi sotterranei) e del fantastico (l’altro mondo in cui vive il Demogorgone), che si intersecano e rilanciano i loro effetti sul mondo in superficie; così se nel sotterraneo si combatte per la salvezza dell’umanità, l’esterno è soggiogato a dinamiche distraenti che non permettono l’inclusione di tali eventi extraordinari: gli occhi sono all’insù incantati dai fuochi d’artificio, le orecchie sono sature di musiche assordanti che schermano persino i rumori degli spari; ma intanto la battaglia è in atto, fervente, con uno schieramento di eroi improbabili –chi più chi meno- e che con qualche azzeccatissimo volto nuovo costituisce un’infallibile squadra anti-mostro.
Stranger Things si fa adulta come i suoi protagonisti e terrorizza, diverte e commuove più delle due stagioni precedenti costruendo micro storie separate che si uniranno solo nelle ultime palpitanti puntate: oltre al chiaro riferimento alla guerra fredda, c’è un enorme pentolone della cultura pop anni 80 in cui i più nostalgici potranno pescare a piene mani; la New Coke, che Lucas paragona al remake de la Cosa (“più dolce, più audace…migliore”), My Bologna di Weird Al Yankovic che il signor Clarke ascolta a tutto volume (super nerd!), i fumetti di Wonder Woman che leggono Max e Eleven, la camicia a fiori che Hopper compra dopo aver visto un episodio di Magnum P.I., lo strisciare tra i condotti per l’aria come in Die Hard.
E mentre i fratelli Duffer hanno già rivelato qualche piccola anticipazione sulla quarta stagione, tornare ad Hawkins per la terza volta è sempre più simile ad un viaggio temporale, dove Netflix diventa la nostra personalissima Delorean; godetevi il viaggio… fino alla fine.
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